“Figure di spago”
Chi è l’autore
Francesco Tarquini, scrittore e insegnante di scrittura creativa, ha lavorato per trent’anni come producer e come dirigente alla Rai nel settore della fiction. Ha contribuito all’istituzione e alla gestione di corsi di sceneggiatura per la Rai, e ha svolto la sua attività prevalente nell’ideazione di progetti e nel coordinamento delle attività di scrittura. Ha tenuto seminari di Letteratura ispanoamericana all’Università di Roma e ha pubblicato vari saggi sui rapporti fra letteratura e mito. Non alto, rotondotto, barba e baffi da sempre brizzolati, voce baritonale, ne avvertivi la presenza ancor prima di ritrovartelo alle spalle con una battuta spesso ironica, sempre condita di fantasia. Arrivavi in ufficio vestito con un’eleganza a volte un po’ trasgressiva, con in testa un cappello di panama in estate o uno zuccotto di lana in pieno inverno. Allora fumavi la pipa. Lasciavi intorno a te un odore di tabacco riconoscibilissimo, come del resto il battere ritmato nel portacenere di vetro quando la svuotavi. Sei stato e sei un punto di riferimento importante per noi della mitica Struttura 4 della Seconda Rete TV. Il tuo giudizio, si trattasse di scegliere un regalo, organizzare una cena, scrivere un documento o prendere una decisione, ti trovava pronto sempre con idee brillanti che solo a volte potevano venir contrastate con un “A Francé, ma che stai a dì”, comunque accolto da un sorriso accattivante e sempre accompagnato da una battuta di spirito. Oggi ci ritroviamo in età adulta, consapevoli di aver camminato a lungo in compagnia per ritrovarci ancora in salita verso una scrittura che finalmente ha il sapore della carta stampata e della copertina con il nome impresso sopra. Vinte infine ritrosie e “timidezze” il libro “Figure di spago” è in libreria pubblicato da Manni Editori, euro 13.
E’ un esordio con sette racconti che stupiscono per la matura maestria narrativa dell’autore, alimentata da una profonda cultura e da vaste letture, come si intuisce tra le righe della sua opera. Una scrittura attenta, allusiva, densa, che riesce a ricomporre lontane memorie, a ricreare paesaggi affascinanti e irreali, in cui si muovono personaggi sfuggenti come le figure di spago del titolo. Ricordi che si addensano frammentati e ricomposti in una solo apparentemente esile trama, in un’atmosfera struggente e pervasa a tratti un’atmosfera struggente e pervasa a tratti di autentica, malinconica poesia. E anche quando il filo conduttore del racconto sembra nascondersi come se volesse essere inseguito, si resta affascinati dal turbinare di immagini e di figure evocate da una scrittura elegante e poeticamente avvincente, sempre controllata e composta.
Come è entrata la RAI nella tua vita?
Per caso. Lavoravo come redattore in una piccola casa editrice dopo aver finalmente preso il coraggio a due mani per dichiarare a mio padre che non lo avrei seguito nella sua professione di avvocato, quando fui informato che la RAI bandiva un con corso. Partecipai, superai le prove d’am missione, seguii un corso di formazione a Firenze, e finalmente fui assunto con la qualifica di “funzionario programmi”. Era il 1968, e credo che risalga a quel periodo tormentato e vitale il mio interesse per le età. cose della politica e lo sviluppo di una co scienza sociale che ha accompagnato i miei trent’anni di lavoro in quella che è stata a lungo una magnifica azienda. Do po circa tre anni nella Segreteria del Co mitato direttivo, passai ai programmi; mi sono da quel momento ininterrottamente occupato di fiction – “sceneggiati”, si chiamavano allora – fino alla mia uscita dall’azienda. In trent’anni ho al mio attivo più di quaranta tra “sceneggiati”, “fictions”,
Durante il corso avevo allacciato alcuni intensi rapporti d’amicizia che durano ancora. E se la RAI, come ho detto, è entrata nella mia vita per caso, non ci è voluto molto perché diventasse una parte grande di me, nel momento in cui cominciai a sentirmi parte di essa. E non tanto perché era “Mamma RAI”, ma per la passione del pensare e del fare che ha contrassegnato i suoi momenti più alti, come la lotta per la riforma alla quale in tanti partecipammo: e come l’esperienza delle Reti scaturite da quella riforma, che vide fra i suoi maggiori protagonisti Massimo Fichera, direttore di Raidue dove lavoravo nella squadra di Giovanni Leto: un capo indimenticabile. Un carissimo amico la cui scomparsa ha costituito per me una profonda ragione di lutto.
Come nasce la tua passione per la scrittura?
Da quella per la letteratura, in primo luogo dalla lettura. Da ragazzo ero un lettore infaticabile, come adesso, e mi ritrovai ben presto a vivere in una sorta di mondo parallelo, forse un po’ stralunato, ma tutto mio, nel quale accadeva esattamente ciò che io volevo accadesse. Da una adolescenziale spinta alla forma poetica, questo si andò via via precisando in strutture narrative. “Figure di spago”, pubblicato l’anno scorso, è il mio primo libro: come vedi sono un esordiente di mezza età.
Ci hai messo un bel po’, a deciderti.
E’ vero. Ma il fatto è che mi ci è voluto molto tempo per prenderla sul serio, e affrontare il giudizio degli altri. Ho sempre saputo di essere scrittore, e mi capitava di riceverne conferme da autorevoli amici; ma come dire, non mi sentivo mai pronto a farlo sapere in giro. Ammiravo incondizionatamente Renzo Rosso, Raffaele La Capria, e li invidiavo: loro sì che erano capaci di vivere integralmente, di fronte al mondo, la loro realtà di dirigenti RAI e di scrittori! A lungo mi sono alzato prestissimo – cosa per me incredibile – per scrivere tre ore prima di andare al lavoro. sentivo come un’attività privatissima, direi segreta, una doppia vita che pareva riem pirmi interamente. senza bisogno d’altro. Non era vero. Il mio libro nasce anche da questo, dall’accettazione che il tempo era maturo, dalla decisione di rompere gli interdetti che io stesso mi ero costruito con tanta ostinazione in un testardissimo dispendio di tempo e di energie. E natural- mente dall’incontro con un editore attento e appassionato. Quando ho avuto in mano la prima copia, tutto quel baloccarsi psicologico e autoreferenziale è svanito come per un colpo di bacchetta magica.
Adesso sto scrivendo un altro libro.
Però durante tutti questi anni sono usciti dei testi tuoi…
Sì, ho partecipato in qualità di “esperto della materia” – bontà loro- a vari seminari di letteratura ispanoamericana, svolgen- do attività didattica e di ricerca – sempre la doppia vita!-, e ho pubblicato saggi su riviste specializzate. oltre ad articoli di critica letteraria su “Il Manifesto”. Ho viaggiato. Ho conosciuto nella sua casa di calle Maipù a Buenos Aires Jorge Luis Borges; ho tradotto uno dei più bei romanzi di Juan Carlos Onetti: ho conosciuto il poeta Ernesto Cardenal, lo scrittore Rodolfo Walsh, scomparso durante la dittatura militare argentina: sono stato a lungo amico del poeta Juan Gelman, e di Osvaldo Soriano… Ho rinunciato a una cattedra universitada, vinta per concorso, perché avrei davvero dovuto sdoppiarmi, o abbandonare la RAI, cosa che non mi senti- vo di fare perché era sul serio “entrata nella mia vita”. Credo di aver fatto la scelta giusta, altrimenti avrei finito per dedicarmi totalmente alla scrittura degli altri invece che alla mia. Anche se della scrittura altrui – mettendo a frutto la quasi trentennale esperienza di lavoro con le équipes di sceneggiatura – continuo a occuparmi, nei miei laboratori per adulti, e per adolescenti: un’esperienza, quest’ultima, profondamente stimolante. Quel che faccio è cercare di aiutarli a scoprire e coltivare in se stessi la loro voglia creativa e la capacità di
non ritirarsi di fronte agli ostacoli.
Non sai cosa possono scrivere certi ragazzi, e come. Io li vedo crescere, sono vicino a loro come un amico anziano, un po’ stravagante. Se un giorno qualcuno di loro sarà scrittore – e qualcuno, ti assicuro, lo sarà – sentirò di aver dato davvero qualcosa di me.
Qual’è il tuo rapporto con la scrittura?
Oggi mi sento scrittore, e non perché ho pubblicato un libro e mi sono montato la testa, ma perché mandarlo agli editori e pubblicarlo ha significato assumere me stesso per quello che sono. Con tutti i rischi, senza alcun paracadute. Con tutta la responsabilità e con tutte le paure: paure reali, però, non più fantasmi. Se, come dice Raymond Carver, “quando cominciamo a scrivere un racconto il nostro primo nemico siamo noi stessi”, io cerco di partire da questo per arrivare a essermi un po’ più amico.
Degli anni trascorsi in RAI quali ricordi con più piacere?
Sono stato felice in Rai in diversi momenti della mia vita. Voglio qui ricordare con particolare affetto gli anni della “struttura di Leto”: di lui si diceva “Giovanni Leto? è quel signore che ha una fiorente azienda di spettacolo all’interno di Raidue”. Giovanni mi ha insegnato a lavorare e mi è stato d’esempio con la sua grande passione professionale e civile. Come tu sai bene, visto che c’eri, la maggioranza di quella “fiorente azienda” continua a volersi bene e ad incontrarsi in succulente àgapi fraterne.
Cosa ti manca, della Rai?
Qualcosa di molto forte. Mi manca il lavoro di squadra. Mi mancano le riunioni di sceneggiatura, e mi manca il set; mi mancano, del mio periodo più antico, la piccola luce sulla moviola, il lieve fruscìo della pellicola che si avvolge, il cappuccino con cornetto alle sei della mattina, dopo una notte di montaggio… Situazioni in cui ho sempre sentito di portare le mie capacità più autentiche, e nelle quali mi accadeva di sentirmi felice. Insomma, mi manca il meglio della professione di “programmista”.
Come mai sei uscito prima del pensionamento?
Perché da tempo la RAI non era più quella magnifica azienda di cui dicevo all’inizio. Ho accolto con 1’entusiasmo dovuto ai processi innovativi il sorgere e l’affermarsi di una mentalità più industriale, che portava con sé la trasformazione del “programma” in “prodotto”. Ma a un certo punto – pur non risparmiando energie – ho cominciato a provare malessere per una concezione del prodotto stesso che sembrava marciare al ribasso. Il fatto è che attorno al concetto di “prodotto” si era andata appiattendo una quantità di valori “alti”, primo fra tutti quello di servizio pubblico. I rapporti erano molto cambiati, diciamo con un eufemismo che si sorrideva con sempre minor sincerità. Negli ultimi due anni vivevo il mio lavoro, per circostanze in parte esterne a me e delle quali preferisco non parlare, come una routine sempre meno stimolante. Fu proprio allora che cominciai a pormi in atteggiamento più realistico di fronte al problema di cosa avrei voluto fare da grande. E se me ne andai senza pensione, fu sì per seguire un amico produttore in una sua fantasiosa avventura purtroppo finita male, ma in fondo, e non lo sapevo ancora, per fare la vita che finalmente da qualche anno sto facendo. Non mi sono mai pentito, anche se la mia scelta ha portato con sé un alto costo; e meno che mai ho rimpianti oggi, di fronte alla fiction che va in onda: tranne qualche eccezione, si tratta, direi, di panna montata. Intendiamoci, quelli ch ela confezionano sono perlopiù stimabili professionisti, solo che io continuo a preferire il buon vecchio cioccolato, quello con i pezzetti interi.
Ci vuoi dire qualcosa della tua vita privata?
Purtroppo Renzo Rosso ti ha dato una risposta, “Non credo di averla, non mi risulta”, che non mi semto in diritto di parafrasare. E mi scoccia. Così mi tocca dirti che faccio cose, vedo gente…che ho felicemente la stessa moglie da ventun’anni, che sono nonno due volte…che quando non viaggio, quando non sto tre mesi in Marocco, passo quasi tutto il giorno chiuso nel mio studio di undici metri quadrati…
E cosa ne è stato del tuo famoso “cuore all’occhiello”?
La battuta era tua. La risposta è, doverosamente, “acqua passata”.