Duccio Guidotti – 2005

Sempre la stessa passione: l’immagine

Conosco Duccio Guidotti alla proiezione del documentario intervista registrato mentre fa il ritratto, mostrando la tecnica pittorica per un bozzetto da destinare ad un affresco, alla giornalista Manuela Palelli in occasione del conferimento della Cittadinanza tedesca per meriti artistici e di quella Europea per il riavvicinamento dei popoli. Una bella figura, un artista che vive e si nutre della sua arte con distaccata ironia, un uomo che ha vissuto una vita ricca di capovolgimenti umani e professionali, sicuro e forte del suo essere diverso, riconosciuto capo carismatico, persona con la quale è facile condividere idee e momenti, i più semplici e i più complicati. Un piacere stare a sentire i suoi racconti che diventano unici e particolari, divertenti, melanconici o di distaccata sofferenza.
Nasce a Roma nel 1920. Lavora nel cinema e in Rai.
Espone già a vent’anni alla Biennale d’Arte Cinematografica di Venezia. I suoi affreschi li troviamo nell’Aula Consiliare del Comune di Bolsena, nel monastero di San Mosé a Marmousa in Siria, a Damasco nella Chiesa di Sant’Antonio, in Germania nella Casa della Cultura di Volkrtshausen, a Roma nel convento dei Frati in San Maria in Via e nella cappella della Fondazione Don Carlo Gnocchi. Affreschi ed opere li troviamo esposti in numerosi musei e collezioni private in Italia ed all’estero. Tra i riconoscimenti più importanti ricordiamo il Premio Viareggio e il Premio giornalisti Sportivi del Coni.

Che cosa avresti voluto fare nella vita?

Volevo fare l’architetto. In realtà ho fatto tante cose. C’è sempre stata la figurazione nel mio lavoro. Il cinema, i cartoni animati, la grafica. Negli anni 60 il cinema era in crisi. Con gli ultimi due milioni che avevo pagai quanto dovuto per chiudere il laboratorio.
Feci il concorso alla Rai e contestualmente fui chiamato a collaborare ad un programma scientifico. Purtroppo dovetti accogliere l’assunzione come cartonista all’Ufficio Produzione del Telegiornale a Via Teulada dove lavorai fino al 1980. Nel laboratorio per titoli e animazione facevamo il famoso rullo, di testa e di coda. Tiravamo delle righe, poi scrivevamo a mano con un pennello piatto terminando lo scritto, che era iniziato di misura normale, piccolo piccolo. C’era la macchina da scrivere, ma il titolo per essere letto aveva bisogno del contrasto. Il bianco sul nero lo leggi bene, il nero sul bianco no. Il bianco non lo puoi stampare e, notoriamente, spara. Facevamo le previsioni del tempo con una camera quadrata, una macchina -verticale-, da dilettanti. Preparavamo la cartina, la mettevano sotto il vetro e muovevamo, facendoli scorrere, le nuvole, la pioggia, il sole.
Però, devo dire, mi sono divertito. La televisione è un luogo che, se hai fantasia, voglia di lavorare, ti interessa la sperimentazione, allora, ma credo anche adesso, puoi emergere. Si perché c’è gente che non sa fare niente, se tu sai fare un pochetto, sei il migliore. Se lavori, puoi fare di tutto. Il direttore era ben contendo di avere una persona sulla quale poter contare. Ho progettato e realizzato una macchina verticale di ripresa, per le animazioni.
Mi mandavano i giornalisti appena assunti. Ad esempio Cavallina e Scarano. Sapevano scrivere, ma non avevano mai fatto né cinema né televisione né dizione. Furono chiamati per una rassegna stampa di dieci minuti. Cosa difficilissima. Disegnai la scenografia, un poco metafisica, con scaffali, giornali. Inventai un marchingegno. Sullo schermo il giornale appariva grigio, quello in evidenza era un trucco cinematografico. La notte facevamo la sintesi. Rispetto a me avevano una cultura politica…a me della politica nun me ne poteva fregà de meno. Li dirigevo in studio come regista. Poi sono intervenuti i sindacati dicendo che non potevo fare quel lavoro. Prima con Cavallina avevo fatto, con vecchie stampe e trucchi cinematografici, una cosa molto divertente, il Telegiornale di cento anni prima. Allora c’erano solo le foto con scritta a macchina la legenda, telefoto da telescrivente con righe che davano il chiaroscuro.
Amo la manualità. Uno può fare anche lo scopino. Però se lo fa bene…Se lo fa male è un cretino.

I compagni di lavoro. C’è qualcuno che ricordi in particolare?

Ancora oggi mi cercano, ci vediamo. Gratton è uno di quelli. E’ diventato qualcuno nel mondo pubblicitario. La lupa della Roma l’ha fatta lui. C’era Giuliano Gentili, un po’ grasso. Ad un certo punto il medico non riusciva a farlo dimagrire, consiglia di mangiare verdura. Ma lui ne mangiava quanto una vacca. Poi ricordo Corrado Senzasono, preciso e puntuale, Renato Startari, Carmelo Modica, Enzo Schiuma per indicarne solo alcuni.

Com’era il rapporto di lavoro con i colleghi?

Gli operatori, i montatori mi trattavano con estremo rispetto. Era un fatto di carisma. Si, ma non mi rendevo conto. Ad esempio allo speaker, in sincronizzazione, gli davo la botterella sulla spalla. Il laboratorio nel frattempo si era ingrandito, eravamo in dodici. La figura del capo non esisteva. Facevo quello che mi pareva. Ho capito che se tu lavori non ti dice niente nessuno. Cercavo le notizie importanti che potevano venir lavorate dal reparto, le suggerivo, le proponevo al direttore, anche tecnicamente, come titoli ed animazione. I cartellonisti si erano trasformati in operatori e animatori. Ho anche registrato, quando Camera e Senato erano chiuse, materiale di repertorio cinematografico e fotografico a corredo. da inserire alle spalle del conduttore, in occasione di dirette.

Perché hai lasciato la Rai?

Quando è morta mia moglie, paralizzata per diciotto anni e bisognosa di costose cure, una cosa devastante, mi sono messo a dipingere a tempo pieno. Sempre nella figurazione. In Rai guadagnavo molto bene, premi di produzione, gratifiche, viaggi. Entravo, uscivo, facevo tante ore di straordinario. Non mi diceva niente nessuno. Prima non avevo una lira, poi trovai un secondo lavoro. L’Ufficio Rapporti con l’Estero mi invitò ad addestrare il corrispondente della televisione svedese. Ho fatto il primo servizio, è andato benissimo. La cosa curiosa è che la Rai non doveva saperlo. lo, praticamente, non sarei dovuto neppure entrare in una moviola.

E il cinema?

Nel cinema ho fatto la regia di più di 200 documentari, ho collaborato alle sceneggiature.

Come nasce la tua passione per la pittura?

C’era una predisposizione e poi c’era un clima particolare in casa, mio fratello più grande era medico, mio padre dipingeva, era un umanista, un uomo molto colto. Come me anche lui ha fatto di tutto nella vita, lo scenografo, è uscito dal seminario, ha messo in piedi un saponificio.

Le soddisfazioni maggiori le hai avute dalla pittura?

La mia soddisfazione era lì dove mi divertivo. Senza saperlo io facevo non quello che fanno tutti, ma un’altra cosa. Non posso pensare che io fossi molto bravo.

Viaggi molto per l’attività di pittore?

Si abbastanza. In Siria, a Damasco, dove ho vissuto due anni. Ho fatto ritratti, ho dipinto un primo affresco nel convento dei francescani. Molto prima sono stato in Palestina dopo essere scappato da Rodi, salvandomi dai tedeschi. Sono sempre stato con un piede nella fossa. Però invece di metterci l’altro, ho ritirato quello che c’era. Ero un granatiere di Sardegna, l’unico caporale nell’Egeo. Il secondo reggimento stava in Albania. Ero lì come pittore di guerra. Tutti gli eserciti avevano un reparto che raccoglieva artisti, pittori, scultori, letterati, ecc. venivano utilizzati per propaganda. Non c’era la televisione, ma per il soldato il pittore diventava l’occhio del pubblico. Non sono mai riuscito a vedere una parata. Stavo sempre dietro. Era anche un modo per imboscarsi. In realtà ero un privilegiato. Mi piaceva viaggiare, l’avventura. Partivo con le tele e una scatola di colori che ancora possiedo. Ho fatto tutti i fronti ad eccezione di quello russo. L’ultima tradotta, della quale facevo parte, è tornata indietro perché l’esercito era in ritirata e il fronte era aperto.

Della Rai di oggi qual è il personaggio che ti piace di più?

C’è Bonolis che ha un dinamismo particolare, c’è Panariello, nei quiz c’è Amadeus, Carlo Conti, tutti abbastanza bravi. I programmi migliori sono quelli che il pubblico vuole, come i teleromanzi. Sono fatti con dignità. Ho conosciuto giornalisti molto bravi e giornalisti buoni divulgatori. Tra le televisioni che ho visto, dalla Germania all’Inghilterra, la Rai fa un buon prodotto, ieri come oggi. Sono contento di essere stato in televisione. Non mi sono mai annoiato. Sono stato bene, ho guadagnato. Per me sono stati anni produttivi, di ricerca. Praticamente la televisione è più immagine che parola. Io ho sempre seguito l’immagine. Non è cambiata la mia passione. Sempre la stessa. Fin da ragazzo.