Claudio Speranza – 2003

“Il lavoro mi ha consentito di vivere come sognavo, cercando emozioni”

Claudio Speranza - 2003 Claudio Speranza, immagini significative che in ogni trasferta ci ha regalato e che giorno dopo giorno si sono andate ad aggiungere al grande patrimonio della Rai. Ha raccontato momenti ricchi di significato con sensibilità, garbo, gentilezza e grande professionalità. Ha arricchito le nostre serate davanti alla tv con il suo tocco leggero, pur di fronte alle atrocità della guerra o degli avvenimenti più devastanti. Ha narrato gioia ed allegria. Ci ha dato sempre la sensazione di esserci da protagonisti.
Ha fatto parte di quei tanti personaggi che hanno attraversato in anni di serio lavoro la nostra Azienda, che hanno avuto grande visibilità in immagini, ma che non ne hanno avuta come persona, riscontrata però dalla stima e dall’affetto dei colleghi. Ha lavorato con amore e con umiltà, dietro le quinte, dentro i clamorí, ma nello stesso tempo lontano, seminascosto dalla macchina da presa, dalla telecamera. Un lavoro, ma anche un ideale. Un più che doveroso grazie a Claudio perché testimone di un lavoro duro, a volte oscuro, ma denso di umanità e ricchezza espressiva.

 

Qual’ è stato il rapporto con la Rai?

Un amore a prima vista che è durato 41 anni. E’ stata la mia casa. Oggi sono tutti bellissimi ricordi.

Non c’è angolo di mondo che tu non conosca. Quale reportage ti ha colpito di più e perché?

Sceglierne uno è difficile. Posso dire che il carcere di massima sicurezza di McAlster in Oklaoma, costruito completatnente sotto terra, mi ha colpito moltissimo. Ma, il più orrendo 1’ho vissuto in Angola con 1’immagine struggente di un bimbo ferito da una mina giocattolo, a forma di farfalla, che ha perso la vita di fronte alla telecamera. Il più chiassoso è stato quello nel quale ho ripreso l’arrivo della primavera a Sagastyr nella Siberia orientale, quando la gente, per dimenticare freddo e miseria, si butta nell’eccesso e nell’allegria.

Parlaci della tua professione dagli inizi ad oggi?

Sono entrato in Rai nel 1961. Fui destinato, come cameraman, ai programmi di prosa, rivista. culturali e sportivi. Successivamente passai all’informazione giornalistica. La professione ha beneficiato delle evoluzioni tecnologiche: le apparecchiature si sono miniaturizzate migliorando la sensibilità e la qualità dell’immagine. Una telecamera oggi può essere più piccola di una penna stilografica. Una microcamera mi ha consentito di raccontare la vita dei “clochard” come condizione sociale, trasformandomi in uno di loro. Ho trascorso una notte alla stazione Termini nascondendo, per non creare sospetti, la telecamera all’interno di un cartone di vino.
Ho vissuto un momento storico: il passaggio dalle riprese filmate a quelle elettroniche Litilizzate soprattutto nell’attualità.

Quanto ti hanno colpito gli avvenimenti e che cosa ti hanno lasciato?

Mi hanno colpito sempre. Ho affrontato anche i più banali con serietà professionale come fossero grandi eventi. Hanno rafforzato in me la curiosità intellettuale e, in tanti casi, ne ho ricevuto lezioni di vita. Questo mestiere, a volte, ti porta ad essere cinico, ti fa rimandare le lacrime a dopo. Un bambino che piange, ancora attaccato al seno della madre uccisa, non è soltanto un’immagine “da copertina”, è soprattutto un bambino da consolare.

Quanto ha inciso il lavoro nella tua vita privata?

Spesso le partenze improvvise mi hanno costretto a dare “buca” alle persone care. In realtà il lavoro mi ha consentito di vivere come sognavo: cercando emozioni.

Una tua inquadratura mi ha colpito profondamente: il Papa al muro del pianto.

Una delle caratteristiche del nostro lavoro è trovarsi spesso a contatto con i protagonisti della storia. Non nascondo che in quell’occasione mi emozionai come all’inizio della carriera quando alla stazione ferroviaria di Loret, ripresi in diretta l’arrivo di Papa Giovanni XXIII documentando il primo viaggio di un Papa fuori dal Vaticano. Fu la prima trasferta fuori dagli studi televisivi.

Sei considerato uno spericolato, perché?

Non amo il rischio, lo accetto. Già dagli anni ’60 era frequente il mio impiego con le telecamere mobili sulle moto per i collegamenti “in diretta” al Giro d’Italia, sugli elicotteri in tragedie come Vajont, terremoto nel Belice, Friuli e Irpinia. Ancora sulla camera mobile per il Processo alla Tappa di Sergio Zavoli, a bordo di un’aliante e su una parete di roccia per raccontare 1’impresa di uno scalatore. Se vuoi, la fama di spericolatezza si ingigantì quando collocai la telecamera sul deltaplano in volo sul lago di Garda. Laborioso fu anche il lavoro di Minimo Napoleone per sistemare il microtrasmettitore sull’imbracatura. Fummo ripagati dal risultato. Riprese in volo così spettacolari, almeno in Italia, non se ne erano ancora viste e suscitarono stupore ed interesse. Io seguitai a volare ancora, nia non ci fu verso di realizzare più servizi con il deltaplano. In Italia ci furono incidenti che si conclusero tragicamente per il pilota e la Rai non volle assumersi responsabilità. Peccato, avrei potuto filmare bei momenti. Il deltaplano per me non è stata una sfida, seminai una cura per le mie incertezze. In situazioni critiche. quando dominare la paura è determinante per la sicurezza propria e per quella degli altri, il deltaplano ha continuato a trasmettermi sicurezza. nú ha fatto conoscere, con grande umiltà, me stesso.

La Rai ti ha fatto frequentare un corso di sopravvivenza?

Si, sono stato tra i “richiamati alle armi” che frequentarono il primo corso di sopravvivenza voluto dalla Rai e organizzato dal Ministero della Difesa. Alpini e paracadutisti, in Friuli, ci hanno insegnato le tecniche per superare ostacoli su terreno disastrato, il guado dei fiumi con la telecamera in mano, le tecniche di movimento notturno, il riconoscimento di trappole esplosive e di armi, i ripari, l’equipaggiamento per proteggerci dai gas tossici, l’uso dell’elicottero in azioni di guerriglia, l’attraversamento di aree sotto tiro di artiglierie e cecchini, il comportamento e la fuga in caso di sequestro, non ultimo il pronto soccorso. E’ stato un corso non privo di rischi. Voglio ricordare un caro collega, Giacomo Cerina, che durante una di queste prove ci ha lasciato per sempre.
Ognuno di noi è convinto dell’importanza dell’informazione e i pericoli che si corrono in circostanze difficili non saranno mai motivo di dissuasione.

Quali difficoltà hai incontrato nelle zone di guerra?

A disagi, privazioni, pericoli reali si aggiungono le difficoltà per ottenere accrediti e autorizzazioni dalle autorità locali. Per filmare azioni di guerra, in certi paesi, possono autorizzarti soltanto i militari, i malavitosi o chiunque detenga il controllo sul territorio. L’alimentazione costituisce uno dei pericoli maggiori. L’alloggio spesso è una casa diroccata, una capanna e, se si è fortunati, una tenda. L’igiene non esiste. Essere infestati dai pidocchi o da altri insetti è il pericolo minore. Ai dis
agi si devono aggiungere i pericoli della guerra, granate, schegge, pallottole dei cecchini e agguati. Ma il rischio maggiore per un cameraman, che è sempre alla ricerca dell’immagine-notizia, sono le armi più vili: le mine. Secondo una logica crudele, la mina non uccide, ma ferisce gravemente. Seppellire un morto non costa nulla, un mutilato pesa sulla comunità per il resto della vita. Anche se in condizioni disagiate, mi sono sempre considerato un privilegiato se messo a confronto di altri che non possedevano più una famiglia o una casa, nella quale tornare, distrutta da una pioggia di granate o da un colpo di mortaio.

Cosa consigli ai giovani telecineoperatori per superare difficoltà e pericoli in guerra?

Le immagini nel racconto televisivo restano un elemento primario. Occorre seguire l’avvenimento da vicino per offrire allo spettatore la sensazione di partecipare all’azione, non per fare spettacolo, ma per raccontare la guerra in tutta la sua assurdità. E’ bene avere le mappe aggiornate degli spostamentii del fronte, non viaggiare soli e disinformati e possibilmente con un interprete locale. Non portare mai apparecchi elettronici sofisticati che potrebbero insospettire. Vanno seguite le strade battute per evitare mine. E’ bene non dimenticare che i cameraman non sono amati da eserciti e da polizie di governi dittatoriali che desiderano solo nascondere nefandezze. Nei ceck-point si deve sempre pazientare ed obbedire. Un auto va guidata con prudenza, tranne nelle strade sotto tiro dove si deve non correre, ma volare. E’ bene conoscere gli usi e costumi principali dei paesi da filmare. In terra islamica non si riprende mai una donna in chador, se si fa è bene non farsene accorgere. E’ facile essere derubati delle apparecchiature e di tutto il resto. Si è sempre controllati dai servizi segreti mascherati magari da lustrascarpe, da cameriere d’albergo o da interpreti. E’ bene non esprimere mai giudizi o pareri politici. Si deve sempre lasciar detto a qualcuno dove si è diretti. Può servire a poco, ma dà la sicurezza che in caso di difficoltà qualcuno ti venga a cercare. La fatica maggiore è superare la paura e la tensione durante i combattimenti e bombardamenti. Avere paura è umano e non bisogna vergognarsene. Non ci si deve però far prendere dal panico alla prima esplosione. Contenere la paura è determinante. Se non ci si riesce, meglio cambiare mestiere. In uno stadio, durante una partita di calcio, a volte si rischia come al fronte, forse peggio. In guerra puoi prevedere le azioni del nemico, in uno stadio no. La folla di tifosi scatenati, è sempre imprevedibile. Un pò di anni fa ai tifosi dell’Atalanta non piacque il commento di Giampiero Galeazzi su una partita precedente. Ero nello stadio di Bergamo per “Novantesimo minuto” quando l’auto aziendale fu data alle fianune. Dopo essere stato oggetto di insulti e maltrattamenti in campo, le Forze dell’Ordine furono costrette a farmi uscire dallo stadio steso sul pavimento di un’ambulanza. Nel nostro mestiere ciascuno di noi mette in conto le esperienze negative e la possibilità non ultima di perdere la vita. L’essenziale è non considerarsi più importanti dell’avvenimento.

Quanto vale l’immagine nei programmi televisivi?

La televisione è linguaggio di immagini e suoni; l’operatore scrive con le immagini, informando senza censure. Non sono d’accordo quando l’immagine violenta diventa spettacolo-consumo, “show consume,” come dicono gli americani, senza possibilità di trarne conseguenze morali e sociali. Penso che il pubblico preferisca l’avvenimento al commento fatto solo di parole. L’immagine è testimonianza diretta e chiara più della parola. Non trovo giusto ridurre le immagini a favore di uno o più personaggi seduti, ad esempio, in uno studio televisivo.

Il tuo ultimo impegno?

Con il patrocinio della Presidenza della Repubblica ho seguito un gruppo di giovani universitari a Cefalonia per realizzare il documentario: “Cefalonia, isola della pace” in occasione della ricorrenza dell’eccidio dei soldati italiani della Divisione Acqui. Finito il nostro incontro torno in moviola per seguire il montaggio.

L’errore che non rifaresti?

Il più piccolo dal quale non ho imparato nulla.

Il tuo reportage più bello?

Lo devo ancora fare.